"Alesso e dintorni", dal puint di Braulins al puint di Avons

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giovedì 14 luglio 2011

Val del Lago, Val Canale, Val di Susa: analogie e differenze

Si discute pressoché continuamente di TAV, della lotta popolare in Val di Susa contro il passaggio della linea ad alta velocità…Come spesso accade, le posizioni sono assai divergenti, attorno al "peso" da dare agli interessi locali e a quelli generali. Ci ha colpito, per esempio, la drastica presa di posizione di Fabrizio Rondolino  secondo cui "nessuna comunità locale può avere il diritto di bloccare un'infrastruttura strategica. (…) Sta qui la differenza fra una nazione matura e solidale e un coacervo di tribù in lotta ciascuna per i propri privilegi e benefici immediati".  Se lo guardiamo in dimensione locale, sembrerebbe una bacchettata per quegli abitanti della Val del lago che si sono opposti, negli anni, con alterni risultati, al passaggio dell'autostrada, alla costruzione dell'area di servizio, al prelievo delle acque del Lago da parte del Consorzio Ledra-Tagliamento, al ventilato raddoppio della centrale di Somplago. Eppure, visti dall'ottica della Valle del Lago, ragioni ce n'erano, eccome!

Un nuovo interessante filone di riflessione viene ora offerto da Franceschino Barazzutti, già presidente dell’Associazione dei Sindaci della ricostruzione del Friuli,  che ha scritto una lettera aperta per mettere a confronto la situazione della Val di Susa con quella della Val Canale - Canal del Ferro, ricordando il periodo post-terremoto durante il quale si progettarono due infrastrutture simbolo della vallata, l'Autostrada e la ferrovia, interrogandosi ora sulle ricadute che tali opere hanno avuto sulle comunità locali e allargando il discorso agli altri "temi aperti" in materia del rapporto tra economia e ambiente in Friuli.

La Val Canale-Canal del Ferro? 
'La nostra Val di Susa'


In questi giorni di 35 anni fa le tendopoli sostituivano i paesi e le tende le case. Nonostante le tante difficoltà conseguenti al terremoto, la discussione sul futuro era partecipata, intensa, animata. Le diverse posizioni emerse trovarono presto una sintesi in cui si riconobbero la popolazione, la classe dirigente, la Chiesa, le Associazioni di categoria. La sintesi trovò espressione in poche ma chiare parole d’ordine. “Dov’era e com’era” sul dove e come ricostruire. “Prima le fabbriche, poi le case e infine le chiese” sulle prorità.

“La ricostruzione abitativa ai Comuni, lo sviluppo agli Enti superiori” sulla divisione dei compiti. Ma il grido riassuntivo forte e tagliente che usciva dalle tante assemblee era “ricostruzione e sviluppo”! Già, lo sviluppo. Per sviluppo s’intendeva non la semplice ricostruzione dell’esistente, ma approfittare della ricostruzione per una riscoperta dei valori profondi del Friuli, per un complessivo ammodernamento tecnologico e produttivo, per più avanzati rapporti di produzione, per dotare il Friuli di una rete infrastrutturale adeguata al suo ruolo geopolitico.

Di queste infrastrutture, interamente finanziate dalla legislazione sulla ricostruzione, le più importanti furono il completamento dell’autostrada da Amaro a Tarvisio e la nuova ferrovia Udine-Tarvisio. Su quest’ultima, in particolare, è il caso di svolgere alcune osservazioni rispetto allo stato dell’Europa di allora ed alla situazione politica in Italia e in regione. La prima. La lungimiranza ebbe la meglio sul rischio che la nuova ferrovia restasse senza uscita andando a sbattere contro il muro di Berlino e la cortina di ferro che allora dividevano l’Europa in due parti impermeabili. La seconda. Nonostante quel rischio, la decisione di costruirla fu unanime a tutti i livelli grazie anche al particolare clima della ricostruzione.

Così, la nuova ferrovia, moderna e altamente veloce, fu! Crollarono il muro di Berlino e la cortina di ferro! Già fu, ma com’è oggi quella ferrovia? E’ decisamente sottoutilizzata e per servizio passeggeri e per transito merci, mentre gli autocarri intasano le nostre autostrade. E che cosa ha dato alla valle attraversata? Nulla. Anzi, ha tolto quasi tutto. Infatti, la ferrovia, l’autostrada, i gasdotti, la statale 13 e vari altre opere, oltre a sconvolgere il Canal del Ferro rendendolo più fragile alle alluvioni, hanno provocato la perdita di quelle attività tradizionali e redditi che le preesistenti infrastrutture trasportistiche avevano assicurato nei secoli ai residenti e un flusso migratorio che ha drastricamente ridotto l’anagrafe. Percorrere Via Roma di quella che fu la fiorente Pontebba dà l’immediata triste sensazione della ricaduta negativa subita.

A chi, come me, visse intensamente le speranze di rinascita della nostra montagna nel periodo della ricostruzione postsismica, queste ricadute negative impongono alcune serie riflessioni anche in relazione ad alcune situazioni attuali.

La prima. C’è voluto l’intervento sulla stampa di un alto dirigente della ferrovie per ricordare alla classe dirigente regionale (e non solo) l’assurdità di realizzare la TAV Venezia-Trieste, quando giace sottoutilizzata la nuova pontebbana, che è in grado di offrire le stesse prestazioni verso l’est e il nord Europa.

La seconda. E’ fuori discussione che la catena alpina vada superata. Discutibile invece è il modus con cui la si supera, dove per “modus” va inteso non solo l’aspetto tecnico delle soluzioni progettuali, del minor tempo di percorrenza, del minor costo, del minor impatto ambientale, delle procedure di VIA, ma innanzitutto l’approccio culturale, socioeconomico - in breve - politico, per cui l’opera non deve essere di uso da parte di territori forti a scopo di mero attraversamento delle deboli vallate alpine, ma deve integrarsi con le caratteristiche particolari di queste valli valorizzandole e preservandole contemporaneamente (altro che compensazioni!), producendo positivi effetti moltiplicatori delle risorse e potenzialità locali e non già distruttive ricadute su tutti i piani. Di ciò il Canal del Ferro è eloquente esempio, nonché di quello che potrebbe diventare la Val di Susa post operam.

La terza. Questo nuovo modus – di civiltà, di rispetto dell’ambiente alpino e del futuro delle popolazioni montane - richiede l’abbandono della superficiale “politica del fare” per far posto alla “politica del pensare”, del pensare bene prima di mettersi a fare, a scavare. 


La quarta. Il “pensare bene” e il conseguente “fare bene”, unitamente all’integrazione dell’opera con le caratteristiche particolari del luogo sì da preservarle e valorizzarle, non sono conciliabili – perché non ne necessiterebbero - con le “compensazioni” che i proponenti delle opere, Stato e Regione offrono alle comunità dalle stesse interessate per far passare “il fare” anche quando ciò non sarebbe ammissibile.

Peraltro, la compensazione presuppone un danno arrecato. Ricordo bene le compensazioni allora offerte al Canal del Ferro, che, quando ci sono state, non hanno evitato il degrado complessivo del fondovalle.

A Pontebba hanno portato via persino lo scalo lasciando solo la speranza, dura a diventare realtà, di salire in quota sul Pramollo per respirare un po’d’aria e di futuro.

A Chiusaforte un casello autostradale e una zona artigianale mai realizzati e - anche qui - la boccata d’aria e di futuro in quota a Sella Nevea.

A Dogna addirittura il nulla, cinto dal nuovo viadotto della strada statale. 


La quinta. Lo Stato e la Regione sono in colpa ed in debito verso il Canal del Ferro: per esso non ci sono stati “ricostruzione e sviluppo” ma “ricostruzione e recessione”.

L’introduzione di una royalty di transito a favore della valle sulle enorme ricchezza (gas) che l’attraversa sarebbe doverosa , come lo sarebbe per le valli della Carnia attraversate dall’oleodotto. Gli stati attraversati da simili infrastrutture pretendono le royalty di transito, eccome. Nonostante la lezione del Canal del Ferro, i fautori del fare senza pensare, ovvero del fare per il fare, i proponenti di compensazioni e i destinatari ingenui veri o in malafede sono ancora all’opera in Carnia con l’autostrada Cadore-Amaro, l’elettrodotto Wurmlach-Somplago, il potenziamento della centrale di Somplago mediante pompaggio.

Costoro vanno fermati e costretti a cambiare quel modus, quell’approccio che ha prodotto i guasti delle grandi opere nel Canal del Ferro e altrove. Stiamo saccheggiando la Terra. E per cosa, poi? Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.

Franceschino Barazzutti, già presidente dell’Associazione dei Sindaci della ricostruzione del Friuli.

(da: http://altofriuli.com/discussioni/la-val-canale-canal-del-ferro---la-nostra-val-di-susa-.htm )

Il Blog è a disposizione per accogliere commenti e riflessioni sui riflessi "valdelaghini" di queste tematiche.

2 commenti:

  1. Mi piacerebbe molto che si discutesse di quanto ha scritto Barazzutti, facendolo però in modo che il pensiero altrui non sia sempre considerato a prescindere sbagliato o peggio frutto di decisioni di persone ingenue o peggio in malafede.

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  2. Anche a me sarebbe piaciuto, e come me a molti altri, discutere sulle eventualità di autorizzare lo sfruttamento speculativo delle potenzialità del nostro territorio; vedi per esempio, il potenziamento della centrale idroelettrica di Somplago. Si, mi sarebbe proprio piaciuto, ma così non è stato! Nessuno mi ha considerato, benché meno informato, se non dopo a cose fatte. Forse, era giusto discuterne, facendo però in modo che il mio pensiero non sia sempre considerato a prescindere sbagliato o peggio frutto di considerazioni ingenue o peggio in malafede. Effettivamente, poter discutere serenamente, sarebbe stato gradito, ma così purtroppo non è stato.....
    Roby S.

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